L’attacco al cuore dell’olivicoltura italiana in un decennio
Il passato conta, e non poco, quando si ha voglia di rinnovare il presente per un futuro migliore. È quello che ho pensato ascoltando gli interventi del Tavolo tecnico interdisciplinare, al suo primo incontro, promosso dall’Associazione Nazionale delle Città dell’Olio, sull’emergenza abbandono dell’olivicoltura tradizionale e storica, “Dati allarmanti. Verso una proposta di legge per il recupero delle olivete abbandonate”. Una triste realtà, com’è quella de: l’agricoltura espropriata del suo ruolo primario, centrale per: lo sviluppo economico, sociale e politico di questo nostro Paese; le aree interne sempre più deserte come conseguenza della fine dell’agricoltura contadina, in mancanza di reddito e per le condizioni di vita, pessime di fronte a quelle offerte dalla società dei consumi; le preferenze per un’agricoltura industrializzata, quella della quantità – interdisciplinare simboleggiata dagli enormi trattori e dalle maschere usate per i trattamenti – della politica agricola comunitaria e nazionale; l’olivicoltura italiana, che in poco tempo perde i suoi primati mondiali per estensione della superficie impegnata, numero di addetti, quantità di olive raccolte e olio prodotto, esportazione. Un decennio e il grande sorpasso della Spagna con l’appropriazione di questi primati e, anche, l’acquisto delle nostre aziende più conosciute al mondo, immagine alta dell’industria olearia italiana. Un attacco diretto al cuore della storia, del paesaggio, soprattutto del nostro ricco patrimonio di biodiversità (oltre 600 varietà autoctone), messo in discussione da due varietà spagnole e una greca fondamentali per gli oliveti ad alta densità. Un percorso breve, accelerato dall’interesse e soddisfazione dell’industria olearia italiana e dalla distrazione di un mondo, quello delle associazioni, cooperative, consorzi, un insieme di realtà espresso dalle organizzazioni professionali agricole, nell’olivicoltura presenti più che in altri comparti della nostra agricoltura. A supporto di questo mio ragionamento: 1. l’aggiunta dell’acronimo evo a Olio d’Oliva, chiaro intento di confondere le idee al consumatore, che, da una grande industria continua a comprare Olio di Oliva, non sapendo che è il peggiore, in fatto di qualità, visto che è ultimo nella classificazione ufficiale; 2. Il vuoto di una strategia in mancanza di un piano olivicolo. Ed è così che oggi c’è chi racconta la vastità dell’abbandono di una coltura di cui ha profondo bisogno l’Italia per salvaguardare la salute dei suoi cittadini e dei suoi territori, per far respirare, con un po’ di ossigeno al posto dell’anidride carbonica, il clima; per affrontare la siccità sapendo che l’olivo è la pianta che sa utilizzare meglio di altre l’acqua, se parte di un oliveto normale, non ad alta densità. A tal proposito ne sanno qualcosa gli olivicoltori dell’Andalusia, che, dopo due anni di siccità con una produzione dimezzata, hanno cominciato a ripensare le scelte fatte. Una premessa, questa mia, necessaria per dire quanto affermato all’inizio e, cioè, che questo passato è da tenere nella dovuta considerazione se si vuole recuperare il presente, segnato da un mare di oliveti diventati boschi e di olivi che soffrono lo stato di abbandono.
Serve, più che mai, la memoria, quella lunga e non quella corta, propria di un mondo politico, economico e sociale che la consuma al pari del tempo, dei valori. Prima di tutto quello del rispetto della terra, martoriata dai possenti trattori, e della sua fertilità, rubata dalla chimica, con una perdita costante della biodiversità. Una ferita sempre più profonda sofferta dalla natura della quale noi siamo parte. Un patrimonio enorme la biodiversità olivicola italiana, oggi sotto attacco dalla scelta di pochissime varietà adatte per oliveti ad alta densità, che, nel mio Molise, qualcuno ha pensato di definirli “a parete” per non citarli come “super intensivi”, una parola che comincia a creare qualche perplessità. Un patrimonio tutto da sfruttare – ripercorrendo la strada della nostra vitivinicoltura – per la ragione che, con l’aggiunta della diversità all’altro carattere fondamentale, la qualità, i nostri oli diventano testimoni veri di mille territori, immagine, racconto, valorizzazione, cioè forza di una strategia di promozione e comunicazione fondamentale per rafforzare i rapporti con i mercati conquistati e per conquistarne altri e fidelizzarli. Tante tipologie di olio Dop e Igp pronte ad incantare il consumatore e ad educare, i ristoratori, al migliore degli abbinamenti per esaltare il gusto di un piatto di carne o di verdure; di salumi o di formaggi; di pesce o di legumi. Controbattere alla povertà spagnola di biodiversità con la ricchezza espressa dalla nostra ultra secolare olivicoltura per riconquistare consumatori, a partire da quelli persi con i prezzi di un mercato impazzito dalla mancanza di olio per colpa della siccità; conquistare nuovi consumatori e, così, remunerare i produttori e trasformatori, soprattutto quelli della nuova generazione per rilanciare l’intero comparto olivicolo. Fare questo approfittando, anche, di un altro elemento fondamentale, le virtù dell’olio a tavola, e, in più, il suo saper essere filo conduttore di quello stile di vita, fonte di salute, che è la Dieta Mediterranea, non a caso, da sette anni, sul podio più alto che la rendono prima di tutte le diete più note e diffuse nel mondo.
Pasquale di Lena, ideatore e fondatore delle Città dell’Olio