Il vanto e la beffa dei successi del cibo italiano
Non c’è un territorio comunale del Bel Paese che non sia inserito dentro un disciplinare di produzione Dop o Igp, Docg o Doc e Igt, le indicazioni geografiche che, con 876 sui 3358 dell’insieme dei Paesi dell’Unione europea, rappresentano un primato che è tanta bella immagine dell’agroalimentare italiano. Una ragione della crescita costante del fatturato pari a 17 miliardi di euro (solo 5 nel 2003); delle esportazioni (9,5 miliardi di euro, suddivisi in 3,8 miliardi dati dai prodotti alimentari e 5,6 miliardi dai vini); del numero degli operatori coinvolti (180.000) e dei Consorzi di tutela riconosciuti (285), e, non ultima, della fama del nostro cibo. Bastano questi pochi dati, dei tanti riportati al Cibus di Parma dal direttore della Fondazione Qualivita, Mauro Rosati, che ha portato avanti lo studio i collaborazione con l’Ismea (istituto dei sei servizi per il mercato agricolo), per fare alcune riflessioni riguardanti il futuro prossimo dell’agricoltura italiana segnata da primati, in particolare due: il numero di territori che rappresentano l’origine della qualità e la ricca biodiversità. Un processo – avviato nel 1963 con il Dpr 930 riguardante i vini e, con il Reg.(CE) 2081 del 1992, l’allargamento a altre 13 specialità agroalimentari – in crescita costante, soprattutto per un Paese come il nostro che, grazie alla ricca biodiversità, ha potuto attingere dal ricco patrimonio dei prodotti tradizionali, oggi una riserva straordinaria pari a 5155 mila prodotti riconosciuti tali da almeno 25 anni e tutto grazie ai mille e mille territori di questo nostro stupendo Paese. Un quadro significativo di successi, merito di avvedute scelte politiche del passato; della memoria e delle capacità dei nostri coltivatori; delle sapienti mani delle donne italiane e delle diffuse e specializzate attività di trasformazione. Un quadro esaltante che dovrebbe far dire a tutti, “grazie coltivatori”, “grazie territorio”, “grazie agricoltura”, ed esaltare i luoghi, che le indicazioni geografiche rappresentano come loro testimoni, e. così, far capire che il “glocale” è vincente di fronte al “globale”. Invece no, tutto si chiude con lo sciorinamento delle cifre e il vanto diffuso con un comunicato stampa, e, tutto e solo, per non disturbare il manovratore che non ha alcuna considerazione dell’agricoltura e fa uso e abuso di territorio, cioè del solo tesoro che il Paese ha. Un sistema, il neoliberismo, che sa bene che rimettere al centro dello sviluppo l’agricoltura vuol dire programmazione, e, con essa, scelte, che, in quanto tali, vanno contro la sua natura, che è quella di depredare e distruggere. Le organizzazioni rappresentative del mondo agricolo hanno mostrato che sono capaci solo di assecondare le scelte dei governi,sempre più interpreti del sistema dominante. Fanno finta di non sapere che il quadro bello sopra rappresentato è da tempo messo in discussione dal tipo di sviluppo, promosso dal neoliberismo, tutto nelle mani delle banche e delle multinazionali, le moderne basiliche,cattedrali e chiese di un nuovo dio onnipotente, il denaro, quello che Marx chiamava il “metallo maledetto”. Fanno finta, anche, di non sapere che il quadro è a rischio di un forte ridimensionamento con le ultime scelte che parlano solo di strutture e infrastrutture, di porti, aeroporti, alta velocità, autostrade, cioè altro cemento e altro asfalto e, anche, di pali eolici e pannelli solari a terra, un furto di valori e risorse del territorio, quali la bellezza del paesaggio, il suolo, e, con il suolo, il cibo, grazie alla fertilità. A perdere, con la perdita di cibo, è l’immagine stessa di un Paese che, ogni giorno, è costretto a cedere, con i primati, pezzi importanti di sovranità per colpa di una classe dirigente e di una politica tutta asservita al sistema dominante.
di Pasquale Di Lena ideatore e promotore delle Città dell’Olio per TEATRO NATURALE Editoriali 03/09/2021 – anteprima