Olio in cucina: 4 secoli di storia
Il consumo di olio d’oliva, anche per noi italiani, è un’abitudine alimentare relativamente recente. Al contrario di quanto si crede la “Dieta mediterranea”, inventata dal nutrizionista americano Ancel Keys nel Dopoguerra non fotografa una tradizione che si perde nella notte dei tempi. Lo ha chiarito un convegno storico organizzato a Taggia (IM) dal Centro studi per la storia dell’alimentazione e della cultura materiale Intitolato alla professoressa Anna Maria Nada Patrone organizzato dalla professoressa Irma Naso dell’Università di Torino con istituzioni liguri e nazionali. In ben 40 relazioni di esperti italiani e stranieri è stata illustrata la storia dell’olio d’oliva e la cultura dell’olivo nella nostra penisola e nel Mediterraneo. Il risultato è che il prodotto “più mediterraneo del mondo” lo usiamo in cucina da solo 4 secoli. Dalla Puglia alla Liguria, passando per Calabria e Toscana, l’olivo si è diffuso ovunque nell’area mediterranea già a partire dal 1000 aC. Molto probabilmente era già diffuso l’oleastro, l’olivo selvatico ancora oggi presente negli ambienti di macchia, e, con le piante di Olea europea ormai domesticate da un altro millennio a partire dal Medio Oriente, l’olivastro si è ibridato. Oggi la biodiversità dell’olivo è forte di ben 1280 varietà (“razze”) di cui ben 600 solo in Italia: solo una regione piccola, ma vocata, come la Liguria ne ha una trentina. Ma tutti questi olivi, così diversi, frutto di selezione umana per adattarli alle temperature, alla piovosità, alle gelate tardive, alle necessità produttive, anticamente non erano coltivai a scopi alimentari. Anzi, nel cibo l’olio d’oliva è arrivato molto tardi, in rapporto alla sua storia millenaria.
L’olio di Etruschi e Romani usato per illuminare
Una campagna di scavi archeologici che ha analizzato i resti carbonizzati dei fuochi degli insediamenti umani antichi della Toscana (oggi una regione letteralmente ricoperta di olivi) ha evidenziato che nei villaggi neolitici, e poi Etruschi e, addirittura Romani, non si ritrovano quasi mai legno di olivo. E nemmeno si ritrovano i noccioli di olive nei resti di pasto rimasti fino a noi. Cioè una delle zona d più antica civiltà italiana e mediterranea, oggi una delle più rinomate culle dell’olio, ancora ai tempi dei romani non coltivava l’olivo. O meglio, ne coltivava pochissime piante, segno che non si usava massicciamente in cucina. Una situazione alimentare che si protrae fino al medioevo inoltrato.
Eppure, in epoca romana, l’olio veniva prodotto eccome. E veniva prodotto in Italia come in molte altre zone del mediterraneo, come avevano insegnato Fenici, Greci, Cartaginesi. L’olio d’oliva veniva esportato in tutto il Mediterraneo utilizzando le anfore olearie e le navi dedicate allo stoccaggio di queste anfore a punta. Solo che l’olio veniva usato, soprattutto, per l’illuminazione (olio lampante), come eccipiente per unguenti, per ungere gli atleti. Era considerato un prodotto prezioso e veniva consumato come alimento solo nelle zone di produzione, in regime di autoconsumo. Gli stessi autori romani, Plinio e Apicio, lo citano ma, evidentemente, non era così diffuso come si crede.
Nel medioevo, l’olio viene prodotto soprattutto per l’illuminazione e per le lampade votive (ogni monastero acquista o produce olio per questo scopo). Ma il vero boom documentato dagli storici è nel basso medioevo, cioè a partire dal 1200.
Le Repubbliche marinare di Venezia e soprattutto di Genova, si specializzano anche nel commercio dell’olio d’oliva, complice la nascente industria laniera e, soprattutto, la crescita del consumo di sapone.
Come è noto, il sapone artigianale si fa mescolando all’olio d’oliva la soda ottenuta dalle ceneri di alcune piante particolarmente ricche di sodio.
I genovesi impiantano coltivazioni di olivi e frantoi in Liguria, Spagna (cristiana) e isole Baleari. Inoltre, ne promuovono l’esportazione anche verso il Medio Oriente. Venezia importa e rivende olio e lo coltiva nelle isole Ionie.
Genovesi e veneziani cercano anche di soddisfare la crescente domanda di olio da parte dei produttori di lana. Ma sono i banchieri fiorentini a specializzarsi in questo commercio. La lana ha bisogno di essere trattata con l’olio per proteggerla dall’infeltrimento, così l’olio di mezzo Mediterraneo va a finire in Francia, Fiandre, Inghilterra e nella stessa Toscana a ungere i panni di lana. Anche nel mondo arabo si assiste a un aumento degli impianti di olivi, che qui possono fornire un’alternativa ai grassi di maiale vietati dal Corano, ma anche qui il consumo alimentare è ancora limitato.
Quando l’olio entra in cucina
L’olio d’oliva è sempre stato utilizzato anche come condimento e per friggere, ma fino alla fine del ‘400, anzi fino a ‘500 inoltrato, non diventa un ingrediente indispensabile per le cucine italiane.
La differenza la fa il prezzo
Con la diffusione (lenta) degli uliveti e, soprattutto con la maggiore disponibilità dovuta ai commerci, l’olio d’oliva inizia a scendere di prezzo e inizia ad essere disponibile a prescindere dall’andamento delle annate agricole locali e dalle stagioni.
Secondo una teoria, questo è anche il periodo in cui il grasso di maiale inizia ad essere consumato meno e viene sempre più rispettato il precetto di “mangiare magro” il venerdì e durante la quaresima in seguito al condizionamento esercitato dalla Controriforma. Così il pesce, consumato in quaresima, viene fritto nell’olio d’oliva, che è ormai considerato un alimento magro, rispetto al più sostanzioso lardo o strutto del maiale che erano i grassi praticamente esclusivi nel medioevo.
Il Cinquecento è il secolo in cui la diffusione dell’olivicoltura è documentata in tutta Italia. Cosimo de Medici aveva imposto la coltivazione dell’olivo nelle terre incolte e molti signori promuovono l’olivo nel Meridione d’Italia, in Liguria e in Sicilia.
Nel Seicento, il paesaggio del centro-sud Italia inizia a cambiare: molti campi lasciano spazio agli uliveti, lo stesso avviene nell’area istriana e sui laghi Garda e di Como. Nel Settecento l’olio d’oliva è, stabilmente, considerato, parte della nostra alimentazione ma solo nelle regioni dove si produce. Nel nord Italia, si consuma ancora molto grasso di maiale e, i più abbienti, usano il burro.
Il boom dell’800
Con la diffusione massiccia nelle cucine del centro e sud l’olio d’oliva diventa un prodotto dell’identità italiana. La nascente industrializzazione inizia a sperimentare modi per renderlo sempre più alla portata delle tasche popolari. A fine secolo, tra Imperia e la Toscana, nascono i grandi marchi industriali italiani. Il vantaggio dell’olio d’oliva è che non ha competitor internazionali. Nel resto del mondo, è un prodotto quasi esclusivamente italiano: Spagna, Portogallo e Francia non spingono verso l’incremento dell’industria olearia e arrivano tardi sui mercati extraeuropei.
Il 900, l’olio prodotto ambasciatore italiano nel mondo
Con il secolo dell’emigrazione italiana, il Novecento, l’olio è “IL” prodotto italiano, insieme alla polpa di pomodoro conservata. Gli italiani del Sud che vanno in Argentina portano con sé un piccolo olivo che piantano di fronte alla nuova casa. Nelle grandi città Usa, sono ormai diffusi i negozi di prodotti italiani e sono gli stessi italiani a farsi spedire l’olio di casa. La Puglia è la regione dove si coltivano più olivi e dove ci sono più frantoi, seguono la Calabria e la Sicilia, ma soprattutto in Puglia e Calabria si produce olio in grandi quantità da destinare al taglio, esattamente come fanno per il vino sfuso. Una scelta che si fa fatica a recuperare ancora oggi, con i mercati che vogliono, invece, la qualità.
Le grandi industrie di Imperia si specializzano nella lavorazione di oli importati per rivenderli con marchio italiano agli emigrati. Una di loro, crea addirittura una banca per finanziare le famiglie che partono dal porto di Genova per lasciare l’Italia: sa che quelle famiglie, una volta trovato un lavoro, si faranno spedire il suo olio.
Altri paesi di esportazione sono quelli del Nord Europa e la Russia. Qui il fenomeno è spiegato con un’altra tendenza, questa volte dell’aristocrazia e della grande borghesia: il turismo verso i paesi caldi mediterranei. La Riviera ligure è frequentata dal bel mondo di mezza Europa e l’olio diventa sinonimo di quei posti dove si è soggiornato. Ne approfitta sempre l’industria che inizia a riprodurre sulle latte di metallo marchi con paesaggi della Riviera, golfi, pini, figure mitologiche romane, slogan dedicati alla cultura e alla storia italiana. Le latte d’olio diventano così delle vere e proprie “cartoline” dal mare italiano e fanno pubblicità all’Italia come posto di vacanza. I governi si rendono conto delle grandi potenzialità che l’olio rappresenta per la bilancia dei pagamenti.
L’olio italiano viene mescolato con olio d’oliva estero. Curioso il fatto che le industria di Imperia, per garantire sempre il tradizionale gusto più gentile dell’olio ligure (meno ricco di polifenoli e quindi meno amaro dell’olio del centro sud), importi olio pugliese per tagliarlo con olio di arachidi e farlo passare come olio di Imperia.
Nel primo decennio del Novecento nasce l’industria della raffinazione e, più in generale, tutta l’industria olearia è il comparto dell’industria alimentare dove sono applicate tutte le più moderne tecnologie, compresa l’elettrificazione. Il Fascismo, con un decreto del 1925, spinge per incrementare la produzione industriale e favorisce le importazioni dall’estero di oli che vengono poi tagliati e venduti all’estero molto più cari: l’Italia importa 1500 quintali di olio e ne esporta 250 mila. Protestano gli agricoltori che vedono deprezzate le olive italiane e il governo istituisce una debole tassazione sull’importazione di oli di semi e sulla produzione industriale. Una delle frodi più frequenti diventerà proprio la sostituzione delle etichette di olio di arachidi importato come olio d’oliva.
L’olio d’oliva oggi
Nelle grandi città del nord Italia (Milano e Torino) si continua a consumare soprattutto il burro: l’olio è usato per condire le insalate. Ma nel Dopoguerra e soprattutto negli anni del boom inizia ad arrivare anche in Italia l’onda lunga della “teoria lipidica” che si sta diffondendo negli Usa: i grassi animali iniziano a cedere il passo ai grassi vegetali. Si diffondono le margarine e gli oli di semi per le cotture, l’olio d’oliva rimane come condimento a freddo.
Ma con l’immigrazione dal sud, l’olio d’oliva inizia a contaminare anche la cucina tradizionale piemontese e lombarda. Un esempio emblematico è rappresentato dal risotto: un ricettario di Luigi Veronelli del 1961 propone il risotto con una proporzione 500 gr di riso e 200 gr di burro. Oggi nel risotto il burro è solo più un’opzione per la mantecatura finale.
Negli anni ’60, lo spopolamento delle campagne riduce la superficie degli uliveti, soprattutto nelle zone a terrazzi come la Liguria dove la meccanizzazione è quasi impossibile. Ma oggi l’olio d’oliva sta riprendendo la sua marcia come alimento di cui sono riconosciute le proprietà antiossidanti e salutiste: i polifenoli proteggono non solo l’olio dall’ossidazione ma anche il nostro corpo. Il boom d’immagine della Dieta mediterranea sta ponendo l’olio d’oliva ai massimi storici dell’apprezzamento e della notorietà. Così, con l’aumento di consumo di olio d’oliva tutte le regioni olivicole italiane stanno ragionando sul ritorno degli uliveti anche dove è tornato il bosco. E molti giovani stanno pensando di tornare al mestiere dei padri.
A proposito: oggi la Puglia e la Calabria non producono più olio da taglio, le due regioni hanno una produzione di grande qualità, che tutto il mondo ci invidia.
FONTE : SPAZIO FOOD ARTICOLO DI MASSIMILIANO BORGIA