L’Olio extravergine d’oliva

Food  28 Novembre 2016

SETTIMANA NAZIONALE DELL’OLIO EXTRAVERGINE D’OLIVA

Ambasciatrice Patrizia Malomo per il Calendario del Cibo Italiano – Italian Food Calendar

L’olivo è da sempre il simbolo di pace, sacralità e prosperità. Fin dai tempi più remoti è origine di una benedizione che vediamo rinnovarsi ogni anno: l’olio extravergine.

UN PO’ DI STORIA

La storia dell’olio extravergine non può prescindere dalla storia dell’olivo, protagonista da millenni dei nostri paesaggi. L’habitat di questa pianta è la sintesi di elementi positivi rappresentati dal clima, dolce e assolato; la cornice naturale dell’ambiente, che lo vede spesso frammisto alla vite, ai mandorli o ai fichi; la fauna che lo abita, come l’upupa che ogni anno passa da una parte all’altra del Mediterraneo, prima dagli ulivi della Tunisia e quelli della Sicilia, per poi percorrere tutto l’Appennino fino ai grandi laghi alpini. Questo uccello nidifica nel cavo dei suoi tronchi e condivide l’oliveto con la capinera, il picchio verde, la civetta e le lucciole nelle notti d’estate.

In qualunque modo lo si voglia guardare, l’olivo è una pianta che emoziona: longevo, essenziale, generoso nel suo dono. La Bibbia lo cita decine di volte, a partire dalla Genesi con il ramoscello di olivo portato nel becco a Noè dalla colomba, di ritorno dalla perlustrazione delle terre emerse. Nei miti greci, Poseidone ed Atena si sfidano nell’offrire ognuno un dono per l’Attica, sotto il giudizio di Zeus. Mentre Poseidone, fendendo il terreno con il tridente, fece comparire una polla di acqua marina a simboleggiare il dominio di Atene sul mare, Atena dette vita ad una pianta d’olivo, che richiudeva in sé la promessa di nutrimento, bontà per il cibo, cura per il corpo, elemento da utilizzare per l’illuminazione delle case e, non ultimo, balsamo per la guarigione da ferite e malattie. La sfida fu vinta da Atena, che divenne così la patrona protettrice della città ed ebbe in suo onore il Partenone.

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L’OLIVO NEL BACINO DEL MEDITERRANEO

L’olivo selvatico, anche detto “olivastro”, è sempre esistito nell’ultimo mezzo milione di anni sul nostro pianeta e la sua storia si è inevitabilmente intrecciata con quella dell’uomo quando ancora non era Sapiens. Il luogo d’elezione dell’olivo (Olea Europaea), prima selvatico e poi domestico, è il nostro Mediterraneo. Il dibattito ancora in corso è su dove e quando sia cominciata la domesticazione dell’olivo e la risposta più coerente è che questa non possa distare da quella mezzaluna fertile che ha visto la nascita dell’agricoltura e dell’allevamento negli ultimi 10mila anni. Parliamo della fascia fertile tra Tigri ed Eufrate, che si spinge verso la costa siriana-libanese e si propaga fino al deserto africano, resa verde dalle piene del Nilo. Gli olivi erano già lì dalla notte dei tempi, grandi, produttivi, rispettati. Lavorare le olive era più semplice di qualsiasi altra cosa: bastava schiacciarle e ricavarne il succo. Ogni goccia era preziosa: serviva agli Egizi per la mummificazione, per la pulizia del corpo destinata esclusivamente ai sovrani, gli Unti. Già intorno al 2500 il commercio dell’olio era regolamentato dal codice di Hammurabi, mentre i sacerdoti babilonesi lo utilizzavano per la predizione del futuro.

Una scoperta recente, datata 1981/84, ha portato alla luce un gigantesco impianto per la frangitura delle olive a Tel Mique Akron, nei pressi di Tel Aviv. Oltre 100 presse e macine protette dai Filistei. Questa fabbrica/frantoio, risalente al 100 a.C, è considerata uno dei più eccezionali complessi industriali dell’antichità, con una produzione annua tra le 1000/2000 tonnellate.

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In età Minoica, tra il 3000/1500 aC, a Creta la coltivazione dell’olivo e conseguente produzione dell’olio è già base dell’economia dei suoi abitanti, che lo esportavano in tutto il Mediterraneo, in particolare in Egitto. La diffusione dell’olivo nel Mediterraneo avvenne da Oriente ad Occidente, quando, dopo il 2000 a.C, da Creta si propaga in Siria, Palestina ed Israele. Possiamo quindi dire che furono i Greci a diffondere le tecniche olivicole in Medio Oriente fino all’odierna Turchia meridionale.

Dal 1500 a.C. inizia, invece, la fase che diffonderà l’olivicoltura in tutta la Grecia e le sue isole, per poi vedere l’abilità Fenicia, attraverso l’uso di navi veloci, fare da tramite con le popolazioni di riviera, arrivando fino alle coste Siciliane e Spagnole. Tra il VI ed il VII secolo a.C., la coltivazione dell’olivo giunge fino al centro della penisola italica. I Romani utilizzavano l’olio d’oliva come base per balsami ed oli profumati e la produzione proveniente da Cuma, Taranto, Reggio Calabria, Messina, Marsiglia divenne molto florida e richiesta per la cura di ferite ed ustioni, il sollievo dal prurito ed anche per la cefalea.

Per definirne l’importanza dal punto di vista medico, una dotazione di olio veniva sempre consegnata ai soldati nel periodo invernale, in modo che potessero cospargersi il corpo e scaldarsi, nonché ammorbidire le ferite. Gli antichi popoli italici consideravano l’olivo come simbolo di fertilità dell’uomo e della terra e per Roma era una pianta sacra. Durante il I sec. d.C, tutte le colonie romane del Mediterraneo avevano coltivazioni di olivi con tecniche avanzate.

Le tecniche di coltivazione, raccolta e trasformazione delle olive in olio non sono variate in maniera sostanziale fino all’età moderna, con la rivoluzione industriale e tecnologica. Per lungo tempo tutte le fasi principali (potatura, raccolta e frangitura) sono rimaste investite da significati rituali e sacri legati proprio alla fecondità ed abbondanza. In ogni caso, la necessità di preservare l’integrità delle olive durante la raccolta per ottenere un prodotto di pregio era conosciuta fin dai tempi antichi. Anche Plinio lamentava i danni provocati dalla bacchiatura dei frutti e ricordava il fondamentale ordine impartito ai raccoglitori: “Guardati di non scoticare e non bacchiare le olive”. Non era però possibile evitare lo stoccaggio delle olive per alcuni giorni nei magazzini, processo molto dannoso per le olive ammaccate o infestate da parassiti.

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I Romani, grandi conoscitori dell’olio, avevano adottato delle denominazioni estremamente efficaci nel descrivere la qualità del prodotto finito.

Oleum ex albis ulivis: altissimo pregio ottenuto da olive verdi.

Oleum viride: ricavato da olive appena invaiate.

Oleum maturum: ottenuto da olive nere già mature.

Olei flos (fiore d’olio): di prima spremitura.

Oleum sequens: di seconda spremitura.

Oleum cibarium: olio ordinario.

Oleum caducum: qualità mediocre, da olive raccolte da terra per avanzata maturazione.

Oleum cibarium: pessima qualità da olive aggredite da parassiti.

Il torchio a vite, grande innovazione tecnica della produzione olivicola, sarebbe stato utilizzato per la prima volta intorno al 50 a.C, su invenzione greca.

Sulle mense romane già di distinguevano gli oli intensi della Sabina e quelli leggeri della Liguria, lasciando oli considerati “pesanti” e provenienti da Spagna e nord Africa ad uso domestico per l’illuminazione.

Dal tardo Impero (IV sec. a.C.) la storia del bacino mediterraneo vede l’inizio di un lungo periodo di guerre e carestie. Diminuisce la produzione, aumenta l’autarchia e l’olivicoltura soffre fino ad interrompersi. Soltanto dopo l’anno Mille le comunità monastiche daranno un nuovo impulso all’agricoltura, reimpiantando vite ed olivo in gran parte del territorio Italiano.

L’ULIVO E L’OLIO DAL RINASCIMENTO AI GIORNI NOSTRI

Nel XIV l’olio ritorna da essere protagonista della produzione agricola, sempre sostenuto da un’aurea simbolica. Il Rinascimento lo colloca, con la vite, ad elemento primario dell’agricoltura, a tal punto che i Medici daranno un grande impulso alla produzione, grazie al conferimento gratuito di grandi appezzamenti di territorio collinare a chi si impegnasse a coltivare e produrre l’olio toscano, già rinomato nella penisola.

Nel XVIII l’Italia diviene il paese dell’olio: la migliore produzione sul mercato europeo risulta essere quella italiana; sempre più territori vengono vocati alla piantumazione dell’olivo; l’industria di produzione collegata all’olio traina nuovi settori, come quello dell’industria conserviera, della saponificazione, e più avanti, anche di quella tessile.

L’olio italiano si diffonde in tutta Europa fino alla Russia, dove l’Imperatrice Caterina riceverà in omaggio campioni di olio d’oliva in un cofanetto di legno di olivo.

Nel ‘700 si comincerà a parlare anche di tipi di olio: quello pugliese, considerato di gran pregio come quello toscano. Gli oli di minor pregio, invece, verranno utilizzati anche per lavare le lane, lubrificare le prime macchine industriali e sempre per l’illuminazione.

Le nuove tecnologie comparse nel XX secolo faciliteranno le varie fasi produttive, dalla raccolta alla molitura, velocizzando il processo e consentendo una diminuzione dei prezzi di lavorazione. Nel XIX secolo cresce la produzione e l’importanza del prodotto, con la creazione di nuove forme di specializzazione nella sua estrazione, divenuto a questo punto condimento di pregio.

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SI FA PRESTO A DIRE OLIO EXTRAVERGINE

Nonostante le numerose campagne d’informazione sul consumo di olio extravergine, è emersa la deprimente consapevolezza che la stragrande maggioranza dei consumatori italiani non fa alcuna differenza tra olio d’oliva ed olio extravergine.

In uno dei Paesi a più alta vocazione olivicola e conseguente consumo del suo prodotto principe, l’ignoranza sull’argomento è ancora molto presente.

Gli Italiani amano questo prodotto, ma molti di loro non lo conoscono affatto e, nonostante i messaggi dei media, le manifestazioni gastronomiche a salvaguardia e valorizzazione del nostro patrimonio, le attività di divulgazione effettuate da enti pubblici e privati, si continua a non sapere che l’olio d’oliva non ha nulla a che vedere con l’olio extravergine d’oliva.

Solo l’olio extravergine, proveniente da un frutto sano, ha un reale legame con il concetto salutistico che si ha di questo condimento.

Un’oliva sana, raccolta con attenzione, portata integra al frantoio e franta immediatamente produce olio extravergine d’oliva.

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Le olive che raggiungono il frantoio in condizioni precarie, troppo mature, con lesioni ammaccature o raccolte direttamente da terra, danno origine ad un prodotto privo di proprietà nutrizionali, che in termini tecnici viene detto “lampante”.

L’olio lampante ha un’acidità tale in grado di trasmettere sensazioni molto sgradevoli, quindi non commestibili.

E’ un olio destinato alla raffineria, e con processi chimico-fisici in grado di eliminare qualsiasi caratteristica organolettica; questa materia viene poi reintrodotta nella filiera produttiva con il termine di “olio raffinato”.

Il 90% del volume di una bottiglia d’olio commercializzato come “olio d’oliva” è così costituito da un sottoprodotto della lavorazione delle olive.

Per essere più chiari, acquistare una bottiglia di olio d’oliva significa acquistare un prodotto industriale, le cui salutari e benefiche proprietà dell’oliva sono state completamente distrutte dai processi chimici e le cui caratteristiche organolettiche non si avvicinano neanche lontanamente a quelle di un olio extravergine.

La dicitura Olio d’Oliva è una categoria commerciale costituita da un prodotto chimico ad ampio uso alimentare, che con l’oliva e l’extravergine ha ben poco da spartire.

LE QUALITÀ DELL’OLIO VERGINE

Il Consiglio Oleicolo Internazionale (COI) definisce i parametri per la classificazione dell’olio d’oliva, che può essere chiamato tale solo se estratto dalle olive (non sembra un concetto scontato, visto che esiste anche l’olio ottenuto dalla sansa di olive e da altri semi miscelati).

L’olio estratto dalle olive è definito “vergine” in quanto ottenuto unicamente per via meccanica e come tale può essere consumato direttamente, senza alcun ulteriore trattamento fisico- chimico o raffinazione/rettificazione.

Esistono tre classi di qualità dell’olio così come esce dal frantoio:

–      Olio extravergine: contiene un’acidità libera (espressa in acido oleico) non superiore a 0,8 g /100 g di olio e avente le caratteristiche conformi per la sua categoria;

–      Olio vergine – acidità libera non superiore a 2 g /100 g di olio avente le caratteristiche conformi per la sua categoria;

–      Olio vergine lampante – acidità libera superiore a 2 g /100 g di olio avente le caratteristiche conformi per la sua categoria.

Il criterio di giudizio organolettico, ovvero le caratteristiche dell’olio, viene definito dal Panel Test; mentre quello chimico si basa sul grado di acidità libera in percentuale di acido oleico e definito attraverso analisi di laboratorio (non è identificabile attraverso colore, odore o limpidezza dell’olio).

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COME SI OTTIENE UN EXTRAVERGINE BUONO?

Il punto di partenza per produrre un ottimo extravergine è la raccolta delle olive, che dovranno essere integre, sane, mature al punto giusto (in molte regioni si ha oggi la tendenza a raccogliere olive appena invaiate per valorizzare la freschezza dei profumi del prodotto finale).

Ovviamente la sola attenzione nella raccolta non basta.

L’attività di produzione dà inizio all’invitabile processo di ossidazione, che è la causa primaria dello sviluppo dell’acidità nell’olio.

E’ quindi chiaro come dal momento della raccolta, tutte le fasi di produzione debbano avvenire velocemente, trasformando le olive nell’arco delle 24 ore successive. Le olive non dovranno essere stoccate, ma consegnate in cassette che consentano il passaggio di aria, per non aumentarne la temperatura e non favorire l’insorgere di muffe o dannosi microrganismi.

La frangitura dovrebbe avvenire il più possibile a ridosso della raccolta per impedire l’ossidazione dell’olio.

Una grande responsabilità sta nelle mani del frantoiano, che rispetti i tempi e le procedure di produzione, ma che sappia anche rifiutare la lavorazione di olive che non rispettino i prerequisiti igienico-sanitari di base.

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COME RICONOSCERE UN BUON EXTRAVERGINE?

Per valutare e classificare un extravergine in maniera professionale, si utilizzano due esami: quello chimico, in grado di valutare i livelli di acidità libera (richiesti per legge ai fini commerciali), e quello organolettico, che evidenzia i pregi ed i difetti e che può essere effettuato sensorialmente da esperti assaggiatori.

La valutazione organolettica/sensoriale viene effettuata attraverso l’assaggio, l’osservazione visiva ed il saggio olfattivo.

I termini chiave principalmente utilizzati per identificare pregi e difetti sono i seguenti:

PREGI: fruttato, piccante, fresco, amaro, armonico, gentile, dolce, ecc.

DIFETTI: ossidato, rancido, muffa, morchia, riscaldo, avvinato, metallico, grossolano, ecc.

L’assaggio avviene in locali privi di fumo o odori. Non bisognerebbe avere fumato o pranzato da poco o indossare profumi; ed ovviamente non avere il raffreddore o il palato infiammato.

Dopo avere versato un cucchiaio di extravergine in un piccolo bicchiere, si avvolge il bicchiere nel palmo della mano, coprendone la bocca con l’altra; questo aiuta a scaldare il prodotto che svilupperà tutti i suoi profumi.

La prima sensazione è quella olfattiva: si avvicina il naso al bicchiere e si registrano le sensazioni pervenute.

Poi si porta alla bocca una piccola quantità di extravergine e si distribuisce sull’intera superficie della lingua: si cerca di incanalare aria nella bocca attraverso lo “strippaggio”, una tecnica che consente, a labbra socchiuse, di aspirare la quantità di aria necessaria per ossigenare il prodotto e trasferire le sensazioni nella zona retronasale. Si memorizzano le sensazioni, in primis il richiamo al frutto fresco, e si espelle l’olio.

Per ultimo si esprime il giudizio sul colore e le note cromatiche.

Basare la propria valutazione sul colore spesso può trarre in inganno.

In finale, l’olio si sceglie con il naso: un olio con sensazioni negative al saggio olfattivo non andrebbe assaggiato perché potrebbe compromettere gli assaggi successivi. Si procede ad un assaggio successivo pulendosi la bocca con una fettina di mela.

L’amaro è un fattore positivo che va sempre tenuto in considerazione in quanto è sinonimo di ricchezza di polifenoli, a meno che non abbia un sapore “medicinale” che è indicazione di un difetto delle olive.

Contrariamente a quelli amari, gli oli dolci e gentili o scarsamente amari o piccanti sono in generale poco aromatici. Le sensazioni piccanti ed astringenti devono comunque essere sempre armoniche e bilanciate.

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L’ OLIO EXTRAVERGINE CI VUOLE BENE

E’ noto fin dall’antichità che l’olio d’oliva faccia bene ma oggi lo conferma anche la scienza.

La necessità di immettere grassi nel nostro organismo aiuta a mantenerci in salute: l’acido linoleico presente nella maggior parte dei grassi vegetali consente al nostro corpo di mantenere una buona temperatura ed aiutare il funzionamento degli organi.

Nonostante gli oli di semi contengano una maggiore quantità di acido linoleico, la loro estrazione attraverso procedimenti termo-chimici finisce col privarli delle proprietà nutritive fondamentali. Per l’olio extravergine non esiste questo pericolo, vista l’estrazione meramente meccanica.

Consumato a crudo protegge le nostre cellule dall’ossidazione e combatte i processi di invecchiamento dei nostri tessuti; non intasa le arterie in quanto ha un effetto riduttivo nei confronti del colesterolo; protegge la mucosa dello stomaco e stimola l’intestino ed il fegato, aiutandolo a produrre i sali biliari.

E’ fondamentale per l’assorbimento delle vitamine lipo-solubili A-D-E-K e F; aiuta l’intestino nel processo di assorbimento del calcio e la struttura dei suoi acidi, molto simile a quella dei grassi del latte materno; è un toccasana per i bambini.

Non ultimo, è il grasso più digeribile e lunghi studi sulle popolazione dell’area del Mediterraneo hanno dimostrato che l’incidenza di malattie cardiovascolari, carcinomi e problemi biliari è nettamente inferiore rispetto alle popolazioni nordeuropee che non hanno un consumo quotidiano di olio extravergine.

Gli acidi grassi contenuti nell’extravergine, inoltre, sono importanti perché monoinsaturi.

La differenza tra grasso monoinsaturo e polinsaturo sta nella capacità di aumentare i valori del colesterolo e di sviluppare polimeri tossici in fase di riscaldamento: l’extravergine contiene la più alta percentuale di monoinsaturi (tra il 65/85%) contro l’8/20% di grassi saturi che, confrontato, per esempio, ad un olio di palma (monoinsaturi 18,5% e saturi 80,8%) ci conforta e ci invita al suo costante utilizzo per ogni preparazione in cucina.

Sul piano cosmetico, il nostro extravergine è un perfetto idratante e detergente per l’epidermide, utilizzato anche in molti saponi, come quello di Marsiglia, che non secca la cute.

L’EXTRAVERGINE IN CUCINA

Usiamo olio extravergine per friggere.

Il punto di fumo è la temperatura alla quale i grassi animali e vegetali iniziano a degradarsi, producendo il fumo e sostanze tossiche deleterie.

Pensiamo che il burro ha un punto di fumo a 110°, l’olio d’oliva extravergine a 210° e quello di arachide a 220°.

Nonostante tutto, anche se scaldato a 200° per oltre 3 ore, l’olio extravergine non ha grandi modifiche della propria composizione di acidi grassi e può essere utilizzato più di una volta. L’importante è ricordare che la temperatura perfetta per una frittura è 170/180°.

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LA CARTA DELL’EXTRAVERGINE ITALIANO ED IL SUO USO IN CUCINA

A livello di produzione mondiale, l’Italia è seconda solo dopo la Spagna.

La produzione è concentrata primariamente nel Meridione, dove regioni come Puglia, Sicilia, Calabria la fanno da padroni, detenendo l’85% della produzione nazionale.

Altre regioni notoriamente celebri per vocazione olivicola, come Toscana, Liguria ed Umbria, partecipano con un 6% della produzione totale.

L’aspetto più impressionante del patrimonio olivicolo italiano è la quantità di cultivar presenti sul territorio. Di circa 700 diverse specie diffuse a livello europeo, oltre 500 sono in Italia, anche se lo schedario olivicolo ne certifica 395.

Per citarne alcune delle più conosciute ed utilizzate, sia in purezza che in blend, abbiamo (da Nord a Sud):

– Bianchera (Friuli Venezia Giulia): abituata ai venti marini, ai terreni calcarei ed il freddo tipici di queste aree;

– Casaliva: peculiare del Lago di Garda e madre di oli particolarmente profumati;

– Taggiasca: simbolo della Liguria, che dà un olio delicato e fruttato e che è consumata anche come oliva da mensa;

– Frantoio: presente in molte regioni del centro Italia, ha un aroma molto fruttato e produce un olio dal verde smeraldo;

– Leccino: anche questo presente in buona parte del territorio e mai utilizzato in purezza in quanto non particolarmente incisivo, spesso miscelato con Frantoio e Moraiolo;

– Moraiolo: considerata una cultivar prestigiosa, è originaria della Toscana ma è presente in tutto il centro Italia, dall’aroma intenso e sapore lievemente amaro e piccante;

– Coratina: originaria del nord della Puglia, prende il nome da Corato, l’area in cui è diffusa, molto fruttata ma decisamente amara e piccante;

– Ogliarola: anche questa pugliese, molto diversa dalla Coratina per profumo e dolcezza, incredibilmente ricca in vitamine;

– Pendolino: una cultivar simile al Leccino, la cui pianta viene utilizzata per impollinare quelle varietà che non possono farlo autonomamente;

– Nocellara del Belice: regina della Sicilia, dà un olio soave, profumato con note di pomodoro, estremamente fine e rinomato. Le sue olive grandi e carnose sono apprezzate a tavola;

– Tonda Iblea: anche qui dalla Sicilia, alle pendici dell’Etna, dà un olio di altissima qualità.

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Conoscere le cultivar con le loro caratteristiche e confrontare extravergini di diversa origine ci può aiutare ad apprezzare questo prodotto non solo come condimento, ma come reale ingrediente per la nostra cucina.

Oli dolci, delicati e dal profumo leggero, come possono essere quelli liguri o del Garda, sono perfetti per l’utilizzo nella preparazione di salse, per la frittura di pesce di mare o di lago, come condimento di insalate delicate, come il songino o la misticanza.

Oli più strutturati come quello toscano o umbro, sono perfetti su cotture alla griglia, carni succulente, ortaggi saporiti come broccoletti o cicoria.

Oli profumati ed intensi, come quello siciliano, danno il loro meglio su pesci saporiti cucinati in bianco o verdure fresche adatte a pinzimoni come il carciofo o il pomodoro maturo, i legumi lessati e serviti senza nient’altro.

Dovremmo abituare il nostro palato a riconoscere le note caratteristiche degli oli regionali e giocare con gli abbinamenti sapendo che, comunque, con un prodotto di qualità non si sbaglia mai.

Abituiamoci a scegliere le Dop e/o le IGP (In Italia ci sono 42 DOP e 2 IGP su un totale complessivo di 65 in tutta Europa ) quando facciamo i nostri acquisti, tenendo ben in mente che al momento l’unica tutela che ci garantisce la provenienza delle olive sono queste certificazioni.

Andiamo verso un consumo consapevole dell’extravergine, leggendo le etichette ed aiutando i piccoli produttori, considerandolo alla stregua di un buon vino, per il quale non abbiamo difficoltà ad investire il nostro denaro per una cena degna.

Una bottiglia di extravergine DOP dura molto di più di una bottiglia di vino e offre grandi soddisfazioni.

Educando il palato e la nostra conoscenza ad un consumo di qualità, daremo a questo prodotto la dignità e l’importanza che merita.

Fonti:

L’Ulivo e l’Olio – Collana Coltura&Cultura – a cura di Renzo Angelini – Script Editore di Art Spa

Le Città dell’Olio – Guida Touring – Touring Club Italiano

La via dell’Olio – Massimo Epifani – Alinari Editore

Olio in cucina – Pia Passalacqua e Carlo Vischi – Gribaudo Editore

Partecipano come contributors:

Lidia Mattiazzi, Un’azienda, una torta e un olio buono davvero

Patrizia Malomo, Minestra di Ceci, Alloro e Aglio di Vessalico